lunedì 10 ottobre 2011

Serraino Vulpitta


A partire dall’11 marzo 2010 la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università degli studi di Palermo ha tenuto un laboratorio in collaborazione con l’associazione ‘Human Rights Youth Organization’ dal titolo ‘Diritti Umani e Nonviolenza – Esperienze a confronto e testimonianze’ il cui obiettivo è imparare a vivere secondo il principio della nonviolenza.

Durante uno degli incontri abbiamo avuto il piacere di incontrare dei rappresentanti del ‘Movimento Primo Marzo’ che ci hanno dato un’idea, purtroppo negativa, di quale sia la situazione degli immigrati in Sicilia. Pertanto, dovendo fare una relazione su un tema di violenza dando una risoluzione nonviolenta mi concentrerò su una vicenda verificatasi a Trapani nel centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta”.

1- INTRODUZIONE

Il Serraino Vulpitta nasce come centro per gli anziani, ma con la legge Turco - Napolitano, un’ala dell’edificio viene adibita come CPT (centro di permanenza temporanea). Il centro è disposto su tre piani in un’ala dell’ospizio. Al piano terra si trovano l’ufficio immigrazione della questura e gli uffici amministrativi. Salendo le scale, al primo piano si trova l’infermeria e l’assistente sociale. I detenuti stanno al secondo piano. Dalle sbarre del cancello s’intravedono le porte delle celle aperte sul ballatoio, le balaustre sono circondate da reti metalliche. Il ballatoio è chiuso sui due lati da cancelli grigi di ferro, i lucchetti si aprono quattro volte al giorno: per i pasti, per l’ora d’aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, sotto la vigilanza della polizia. Lungo lo stretto corridoio del ballatoio, si affacciano due sezioni, per un totale di 57 posti, dall’inizio del 2008 ne è attiva soltanto una. I trattenuti sono ex detenuti, lavoratori migranti fermati sul territorio senza documenti, oppure tunisini respinti alla frontiera dopo essere sbarcati sull’isola di Pantelleria. In comune hanno una sola cosa: l’assenza di un documento di soggiorno e un ordine di espulsione non rispettato. Ricevono una scheda telefonica ogni dieci giorni, sigarette e assistenza medica e sociale. In ogni cella ci sono quattro brandine, una delle camere è stata adibita a moschea. Nel primo semestre del 2008 sono transitate dal Vulpitta 94 persone, soprattutto tunisini e marocchini. Al momento i presenti sono 29. Con questi numeri, le condizioni del trattenimento sono più vivibili. E non è facile immaginare come nei primi anni di apertura, nel 1998 e 1999, il centro potesse contenere fino a 180 persone, con 12 o 13 persone per ogni stanza.

2- I FATTI

Il 29 dicembre del 1999 durante un tentativo di fuga venne appiccato un incendio da un tunisino, che costò la vita a tre extracomunitari. Ecco i fatti brevemente: sei clandestini fuggono dal centro di accoglienza, che ospita in tutto 85 extracomunitari di passaggio a Trapani o clandestini senza permesso di soggiorno in attesa di essere rimpatriati. Nel frattempo, all'interno, una decina di extracomunitari cerca di fuggire come gli altri sei: come i loro compagni, erano senza permesso di soggiorno e non erano stati ancora sottoposti alla procedura di riconoscimento che precede l'espulsione. Ecco la carta della rivolta: si barricano in una camerata accatastando le brande davanti alla porta e appiccano il fuoco a materassi e cuscini nel tentativo di costringere la polizia a ritirarsi. Ma la situazione gli sfugge di mano, la stanza si trasforma in una camera a gas e i rivoltosi restano intrappolati tra le fiamme.

Questa però non era la prima rivolta che scoppiava nel centro trapanese, ma era la quarta, la prima con morti, tanto che il Vulpitta all’epoca fu definito "un lager dove viene negato l'accesso perfino alle associazioni di volontariato". Il Vulpitta, quindi, fu chiuso per adeguare le misure di sicurezza e per ristrutturare i locali, ma dal 2002 al 2004 e ancora tra il 2007 e il 2008 si sono verificate altre rivolte a causa del sovraffollamento bestiale (in quindici in una cella, dormendo per terra), condizioni terribili e soprattutto botte, botte, botte. I racconti di chi ha provato a fuggire:

Abdallah Fathi, 24 anni, è rinchiuso qui dentro da una settimana, dopo essere sbarcato a Mazara del Vallo con altri otto uomini, provenienti dal Marocco. Cinquecento euro il prezzo del viaggio della speranza, conclusosi dietro le sbarre e con la prospettiva di essere liberato dopo 60 giorni, il tempo concesso dalla legge Bossi-Fini per accertare la provenienza dei clandestini. Chi è identificato viene accompagnato alle frontiere ed espulso, ma solo dopo aver ottenuto i documenti di viaggio dal paese di provenienza. Agli altri toccherà il foglio di via e l'obbligo a lasciare il paese entro cinque giorni. Assieme ad altri 5 immigrati, Fathi venerdì scorso ha tentato di evadere dal Vulpitta, ma non ce l'ha fatta. «Dormo su un materasso per terra - racconta - non posso telefonare e poi ho bisogno di essere operato». Su tutta la schiena e sulle braccia Fathi ha i segni di un'ustione che l'ha sfigurato quando aveva solo due anni. «Ho lasciato il mio paese perché la mia famiglia non aveva i soldi per pagarmi le operazioni, così ho creduto di venire in Italia per lavorare, e invece mi trovo rinchiuso in un carcere. Quando esco parto per la Francia dove mi aspetta la mia fidanzata».

In questi anni, la storia del CPT “Serraino Vulpitta” è stata scandita da episodi simili: rivolte, tentativi di fuga, atti di autolesionismo, tentati suicidi, scioperi della fame, proteste individuali e collettive. Per non parlare poi delle denunce degli immigrati che hanno puntato il dito contro l’invivibilità della struttura e le violenze delle forze dell’ordine deputate alla sorveglianza dei trattenuti. Una storia, quella del “Serraino Vulpitta” simile a quella degli altri Centri di detenzione per immigrati sparsi per l’Italia. Galere etniche in cui le persone vengono rinchiuse solo perché classificate dalla legge come “irregolari” o “clandestine” e “orribili luoghi di detenzione che l'ipocrisia vieta di chiamare carceri”.
A più di dieci anni dal rogo del “Vulpitta” il livello della repressione nei confronti degli immigrati in Italia è addirittura peggiorato. Governi di centrodestra e di centrosinistra hanno garantito una sostanziale continuità nelle normative sull’immigrazione, sempre finalizzate a rendere difficile l’ottenimento del permesso di soggiorno e a creare un’enorme massa di manodopera a basso costo esposta al ricatto della clandestinità, delle mafie e dei trafficanti di esseri umani. Le campagne di criminalizzazione promosse dalla classe dirigente nei confronti degli immigrati hanno spianato la strada a un razzismo diffuso, a un’aperta ostilità contro gli stranieri, accusati di essere gli artefici di tutti i mali della nostra società. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione dispone la costruzione di nuovi Centri di detenzione per immigrati, il prolungamento della detenzione fino a sei mesi, il carattere penale del reato di clandestinità, il respingimento in mare dei migranti.
Negli ultimi dieci anni la migliore resistenza al razzismo è stata offerta proprio dagli immigrati, dalla loro autorganizzazione, dalla loro capacità di mobilitarsi per difendere i loro diritti. Le stesse rivolte, sempre frequenti in tutti i Centri di detenzione d’Italia, sono la testimonianza di quanto sia insostenibile la privazione della libertà quando si viene incriminati ‘non per ciò che si fa ma per ciò che si è’.

3- PER UNA RISOLUZIONE NONVIOLENTA

Non è semplice dare una risoluzione ad una situazione così complessa che alla fine non riguarda solo la città di Trapani ma tutta l’Italia (basta pensare ai fatti di Rosarno).

In primo luogo ma credo sia un’utopia, deve esserci la volontà di entrambe le comunità di venirsi incontro, pertanto rinchiudere i migranti in un centro di accoglienza, che deve garantire condizioni di vita umane prima di un eventuale rimpatrio, ma in realtà è un carcere, certamente non aiuta anzi crea le basi per comportamenti violenti da parte dei migranti che determinano a loro volta comportamenti xenofobi. Proviamo a pensare a quale sarebbe la nostra reazione se dovessimo vivere in 15 ammassati in una stanza dove possono stare 8 persone, dormendo per terra, in condizioni disumane! Non agiremmo allo stesso modo?

In secondo luogo oggi i lavori definiti ‘umili’ sono lasciati ai migranti, quegli stessi migranti che vorremmo cacciare dal nostro Paese, da questo presupposto si è tentata una risoluzione nonviolenta condotta dal Movimento Primo Marzo che nasce nel 2009 e trova i suoi fondamenti in questa frase:

Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni d’italiani stanchi del razzismo?

Obiettivo di questo movimento è stato, infatti, l'organizzazione di una manifestazione nonviolenta per far comprendere all'opinione pubblica quanto l'apporto dei migranti sia indispensabile al funzionamento della nostra società e come gli italiani debbano essere uniti per difendere i diritti fondamentali della persona, combattere il razzismo e superare la contrapposizione tra "noi" e "loro". Partendo da questi obiettivi il primo marzo 2010 si è svolta una manifestazione che ha avuto grande successo coinvolgendo almeno 300mila persone nelle piazze italiane. Adesso scopo del movimento è impegnarsi a livello politico e coinvolgere sempre di più la popolazione italiana.

Combattere attraverso la nonviolenza non è non-reagire ai soprusi ma subirli per far valere le proprie ragioni.




Riferimenti:

Ricerca a cura di Gabriella Malato, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization



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