lunedì 10 ottobre 2011

Un caso di Bullismo


Giuseppe è il protagonista di questa storia. Questo è un nome di fantasia: già intimidito dal fatto di dover raccontare la sua esperienza, gli abbiamo promesso di non menzionare il suo vero nome.
Parlando un giorno al nostro amico Davide del Laboratorio su “Nonviolenza e Diritti Umani” e della situazione conflittuale da dover individuare per l’elaborato finale, ci siamo ritrovati a parlare di Giuseppe e della sua situazione. Giuseppe è un ragazzo di quindici anni a cui Davide impartisce lezioni di matematica. Tra i due vi è una vera e propria amicizia che ha spinto il ragazzo a confidarsi con il suo insegnante su alcune vicende verificatesi a scuola, vicende che possono senz’altro interpretarsi alla luce di quel fenomeno chiamato Bullismo. Abbiamo così deciso di affrontare tale problematica conflittuale, oggi tanto diffusa nelle scuole italiane e non solo, attraverso la vicenda di questo quindicenne.
Giuseppe frequenta l’Istituto Tecnico Commerciale “Vilfredo Pareto” di Palermo. Ha appena concluso il secondo anno. In un incontro avuto con lui, ci ha raccontato di come un gruppetto di ragazzi più grandi lo abbia infastidito, più volte e in diverse modalità, nel corso di quest’anno. In primo luogo, è stato più volte deriso e preso in giro: ogni volta che passava - racconta - si voltavano verso di lui sorridendo e ridacchiando; spesso lo prendevano in giro apertamente rivolgendogli soprannomi offensivi o, comunque, espressi in tono maligno, come quello di “tonno rio mare”. Alla domanda su come reagisse a questi atteggiamenti, Giuseppe ci ha detto di come a volte sia rimasto in silenzio e, altre volte, abbia invece tentato di reagire rispondendo a tono: cosa per lui molto difficile, essendoci sembrato un ragazzo timido ed introverso. Tra l’altro, la cosa che più ci ha colpito è il fatto che, secondo il racconto di Giuseppe, questi episodi di “sfottò” si verificano quotidianamente a scuola e, per i ragazzi, rientrano nella normalità: «Queste cose sono normali. Del resto non ero l’unico ad essere stato preso di mira!». Tuttavia, Giuseppe non si sarebbe mai aspettato che dal “semplice sfottò” si sarebbe passati a qualcosa di più grave. All’inizio di maggio si è verificato un episodio spiacevole. Durante l’ora di ricreazione, Giuseppe va in bagno. Bussa alla prima porta chiusa, e si sente rispondere che è occupato. Stessa scena davanti alla seconda porta. Al terzo tentativo, però, non c’è una voce che lo invita a provare altrove. C’è, invece, uno di quei ragazzi che spalanca di colpo la porta e comincia a colpire Giuseppe: due calci ravvicinati colpiscono la sua mano sinistra. Intanto si aprono le altre porte ed escono ridendo gli altri componenti del gruppo. Giuseppe comincia ad urlare dal dolore, i ragazzi scappano e a quel punto accorre il bidello per capire cosa sta succedendo. Di lì a poco vengono avvertiti i genitori di Giuseppe, che si recano a scuola e portano il figlio al pronto soccorso di Villa Sofia. La prognosi del medico è stata la seguente: 15 giorni di gesso per trauma, da tenere sotto il controllo di un ortopedico.
Giuseppe è rimasto chiaramente scioccato da questo episodio. È molto seccato del fatto che a scuola l’accaduto sia stato spiegato come un semplice incidente, ma, del resto, lui non ha voluto raccontare come siano andate veramente le cose. È, inoltre, deluso dal fatto che, a parte due ragazzi di cui è amico, nessun altro dei compagni si sia fatto vivo per sapere come sta. Del resto, ci ha detto, la maggior parte di loro ha sempre fatto finta di niente, e alcuni sembravano persino divertirsi durante le varie “prese in giro”. Il risultato è che Giuseppe ha chiesto ai suoi genitori di cambiare scuola per il prossimo anno.

Dalla vicenda di Giuseppe possiamo estrapolare i seguenti punti:
  • Giuseppe è un ragazzo tranquillo, timido e un po’ insicuro: per quel gruppo di ragazzi è stato facile sceglierlo come bersaglio delle loro angherie.;
  • G. è stato vittima di violenza psicologica: l’essere continuo oggetto di sorrisetti e risatine, l’essere preso in giro è motivo di grande sofferenza per un adoloscente;
  • G. è stato vittima di violenza fisica.
  • La reazione di G. è stata a volte il silenzio, a volte la rabbia, dimostrando in ogni caso di essere turbato dagli attacchi del gruppetto.
  • G. non si è mai confidato con gli adulti (genitori o insegnanti) per paura che il gruppetto potesse bersagliarlo ancora di più per ripicca e, forse, anche per vergogna della propria debolezza, dell’essere incapace di farsi valere.
  • Gli altri ragazzi della scuola hanno, in generale, mostrato indifferenza, probabilmente spinti dalla paura che quei ragazzi potessero prendersela anche con loro.
Tali punti ci riconducono senz’altro al fenomeno Bullismo, la cui definizione è: “un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona (bullo) o da un gruppo di persone più potente nei confronti di una persona percepita più debole (vittima)”.
Contro questa problematica conflittuale, che riguarda Giuseppe come molti altri ragazzi, è possibile contrapporre una soluzione nonviolenta. Per fare ciò è importante che ad agire attivamente siano tutte le parti coinvolte, ovvero:
  • la “vittima”, nel nostro caso Giuseppe
  • gli “spettatori”, ovvero quella maggioranza silenziosa di studenti che assistono agli episodi di oppressione
  • la famiglia
  • la scuola

Per la vittima:
  • Il bullo si diverte quando reagisci. Se ti provoca, fai finta di niente e allontanati. Cerca di mantenere la calma, non farti vedere spaventato o triste. Senza la tua reazione il bullo si annoierà e ti lascerà stare.
  • Cerca di far capire al bullo che non hai paura di lui e che sei più intelligente e spiritoso. Così lo metterai in imbarazzo e ti lascerà stare.
  • Molte volte il bullo ti provoca quando sei da solo. Durante la ricreazione stai vicino agli altri compagni o agli adulti; utilizza i bagni quando ci sono altre persone.
  • Confidati con gli adulti, genitori e insegnanti. Non puoi sempre affrontare le cose da solo!
Per il ragazzo “spettatore”:
  • se sai che qualcuno subisce prepotenze, dillo subito ad un adulto.
  • Cerca di superare la paura e pensa che potresti essere tu al suo posto: saresti felice se qualcuno ti aiutasse.
Per i genitori:
  • Imparare a cogliere i segnali che i figli possono nascondere, cercando di mostrare comprensione.
  • Ascoltare attentamente i figli e non colpevolizzarli.
  • Farsi raccontare dettagliatamente l’accaduto per un’eventuale denuncia.
  • Mettere a corrente la scuola.

Per gli insegnanti:

Può essere utile far compilare agli alunni un questionario e organizzare una giornata di dibattito e incontri fra genitori e insegnanti. Ciò è importante per capire le dimensioni del fenomeno.

Una migliore attività di controllo durante la ricreazione metterebbe al sicuro le potenziali vittime. Sono questi i momenti in cui la maggior parte dei bulli agisce indisturbata.

Si possono istituire "cassette delle prepotenze" dove lasciare dei biglietti con su scritto quello che succede.

In classe, tutti insieme, si possono individuare poche e semplici regole di comportamento contro il bullismo. Le regole devono essere esposte in modo ben visibile e tutti devono impegnarsi a rispettarle.

Il silenzio e la segretezza sono potenti alleati dei bulli. È importante abituare i ragazzi a raccontare ciò che accade e a non nascondere la verità.

Se l'insegnante individua un bullo o una vittima, per aiutarlo è necessario parlare subito con lui di ciò che gli accade.




Ricerca a cura di Daniela Balistreri, Donato Dell'Orzo, Alessandra Ferrara, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization




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Serraino Vulpitta


A partire dall’11 marzo 2010 la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università degli studi di Palermo ha tenuto un laboratorio in collaborazione con l’associazione ‘Human Rights Youth Organization’ dal titolo ‘Diritti Umani e Nonviolenza – Esperienze a confronto e testimonianze’ il cui obiettivo è imparare a vivere secondo il principio della nonviolenza.

Durante uno degli incontri abbiamo avuto il piacere di incontrare dei rappresentanti del ‘Movimento Primo Marzo’ che ci hanno dato un’idea, purtroppo negativa, di quale sia la situazione degli immigrati in Sicilia. Pertanto, dovendo fare una relazione su un tema di violenza dando una risoluzione nonviolenta mi concentrerò su una vicenda verificatasi a Trapani nel centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta”.

1- INTRODUZIONE

Il Serraino Vulpitta nasce come centro per gli anziani, ma con la legge Turco - Napolitano, un’ala dell’edificio viene adibita come CPT (centro di permanenza temporanea). Il centro è disposto su tre piani in un’ala dell’ospizio. Al piano terra si trovano l’ufficio immigrazione della questura e gli uffici amministrativi. Salendo le scale, al primo piano si trova l’infermeria e l’assistente sociale. I detenuti stanno al secondo piano. Dalle sbarre del cancello s’intravedono le porte delle celle aperte sul ballatoio, le balaustre sono circondate da reti metalliche. Il ballatoio è chiuso sui due lati da cancelli grigi di ferro, i lucchetti si aprono quattro volte al giorno: per i pasti, per l’ora d’aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, sotto la vigilanza della polizia. Lungo lo stretto corridoio del ballatoio, si affacciano due sezioni, per un totale di 57 posti, dall’inizio del 2008 ne è attiva soltanto una. I trattenuti sono ex detenuti, lavoratori migranti fermati sul territorio senza documenti, oppure tunisini respinti alla frontiera dopo essere sbarcati sull’isola di Pantelleria. In comune hanno una sola cosa: l’assenza di un documento di soggiorno e un ordine di espulsione non rispettato. Ricevono una scheda telefonica ogni dieci giorni, sigarette e assistenza medica e sociale. In ogni cella ci sono quattro brandine, una delle camere è stata adibita a moschea. Nel primo semestre del 2008 sono transitate dal Vulpitta 94 persone, soprattutto tunisini e marocchini. Al momento i presenti sono 29. Con questi numeri, le condizioni del trattenimento sono più vivibili. E non è facile immaginare come nei primi anni di apertura, nel 1998 e 1999, il centro potesse contenere fino a 180 persone, con 12 o 13 persone per ogni stanza.

2- I FATTI

Il 29 dicembre del 1999 durante un tentativo di fuga venne appiccato un incendio da un tunisino, che costò la vita a tre extracomunitari. Ecco i fatti brevemente: sei clandestini fuggono dal centro di accoglienza, che ospita in tutto 85 extracomunitari di passaggio a Trapani o clandestini senza permesso di soggiorno in attesa di essere rimpatriati. Nel frattempo, all'interno, una decina di extracomunitari cerca di fuggire come gli altri sei: come i loro compagni, erano senza permesso di soggiorno e non erano stati ancora sottoposti alla procedura di riconoscimento che precede l'espulsione. Ecco la carta della rivolta: si barricano in una camerata accatastando le brande davanti alla porta e appiccano il fuoco a materassi e cuscini nel tentativo di costringere la polizia a ritirarsi. Ma la situazione gli sfugge di mano, la stanza si trasforma in una camera a gas e i rivoltosi restano intrappolati tra le fiamme.

Questa però non era la prima rivolta che scoppiava nel centro trapanese, ma era la quarta, la prima con morti, tanto che il Vulpitta all’epoca fu definito "un lager dove viene negato l'accesso perfino alle associazioni di volontariato". Il Vulpitta, quindi, fu chiuso per adeguare le misure di sicurezza e per ristrutturare i locali, ma dal 2002 al 2004 e ancora tra il 2007 e il 2008 si sono verificate altre rivolte a causa del sovraffollamento bestiale (in quindici in una cella, dormendo per terra), condizioni terribili e soprattutto botte, botte, botte. I racconti di chi ha provato a fuggire:

Abdallah Fathi, 24 anni, è rinchiuso qui dentro da una settimana, dopo essere sbarcato a Mazara del Vallo con altri otto uomini, provenienti dal Marocco. Cinquecento euro il prezzo del viaggio della speranza, conclusosi dietro le sbarre e con la prospettiva di essere liberato dopo 60 giorni, il tempo concesso dalla legge Bossi-Fini per accertare la provenienza dei clandestini. Chi è identificato viene accompagnato alle frontiere ed espulso, ma solo dopo aver ottenuto i documenti di viaggio dal paese di provenienza. Agli altri toccherà il foglio di via e l'obbligo a lasciare il paese entro cinque giorni. Assieme ad altri 5 immigrati, Fathi venerdì scorso ha tentato di evadere dal Vulpitta, ma non ce l'ha fatta. «Dormo su un materasso per terra - racconta - non posso telefonare e poi ho bisogno di essere operato». Su tutta la schiena e sulle braccia Fathi ha i segni di un'ustione che l'ha sfigurato quando aveva solo due anni. «Ho lasciato il mio paese perché la mia famiglia non aveva i soldi per pagarmi le operazioni, così ho creduto di venire in Italia per lavorare, e invece mi trovo rinchiuso in un carcere. Quando esco parto per la Francia dove mi aspetta la mia fidanzata».

In questi anni, la storia del CPT “Serraino Vulpitta” è stata scandita da episodi simili: rivolte, tentativi di fuga, atti di autolesionismo, tentati suicidi, scioperi della fame, proteste individuali e collettive. Per non parlare poi delle denunce degli immigrati che hanno puntato il dito contro l’invivibilità della struttura e le violenze delle forze dell’ordine deputate alla sorveglianza dei trattenuti. Una storia, quella del “Serraino Vulpitta” simile a quella degli altri Centri di detenzione per immigrati sparsi per l’Italia. Galere etniche in cui le persone vengono rinchiuse solo perché classificate dalla legge come “irregolari” o “clandestine” e “orribili luoghi di detenzione che l'ipocrisia vieta di chiamare carceri”.
A più di dieci anni dal rogo del “Vulpitta” il livello della repressione nei confronti degli immigrati in Italia è addirittura peggiorato. Governi di centrodestra e di centrosinistra hanno garantito una sostanziale continuità nelle normative sull’immigrazione, sempre finalizzate a rendere difficile l’ottenimento del permesso di soggiorno e a creare un’enorme massa di manodopera a basso costo esposta al ricatto della clandestinità, delle mafie e dei trafficanti di esseri umani. Le campagne di criminalizzazione promosse dalla classe dirigente nei confronti degli immigrati hanno spianato la strada a un razzismo diffuso, a un’aperta ostilità contro gli stranieri, accusati di essere gli artefici di tutti i mali della nostra società. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione dispone la costruzione di nuovi Centri di detenzione per immigrati, il prolungamento della detenzione fino a sei mesi, il carattere penale del reato di clandestinità, il respingimento in mare dei migranti.
Negli ultimi dieci anni la migliore resistenza al razzismo è stata offerta proprio dagli immigrati, dalla loro autorganizzazione, dalla loro capacità di mobilitarsi per difendere i loro diritti. Le stesse rivolte, sempre frequenti in tutti i Centri di detenzione d’Italia, sono la testimonianza di quanto sia insostenibile la privazione della libertà quando si viene incriminati ‘non per ciò che si fa ma per ciò che si è’.

3- PER UNA RISOLUZIONE NONVIOLENTA

Non è semplice dare una risoluzione ad una situazione così complessa che alla fine non riguarda solo la città di Trapani ma tutta l’Italia (basta pensare ai fatti di Rosarno).

In primo luogo ma credo sia un’utopia, deve esserci la volontà di entrambe le comunità di venirsi incontro, pertanto rinchiudere i migranti in un centro di accoglienza, che deve garantire condizioni di vita umane prima di un eventuale rimpatrio, ma in realtà è un carcere, certamente non aiuta anzi crea le basi per comportamenti violenti da parte dei migranti che determinano a loro volta comportamenti xenofobi. Proviamo a pensare a quale sarebbe la nostra reazione se dovessimo vivere in 15 ammassati in una stanza dove possono stare 8 persone, dormendo per terra, in condizioni disumane! Non agiremmo allo stesso modo?

In secondo luogo oggi i lavori definiti ‘umili’ sono lasciati ai migranti, quegli stessi migranti che vorremmo cacciare dal nostro Paese, da questo presupposto si è tentata una risoluzione nonviolenta condotta dal Movimento Primo Marzo che nasce nel 2009 e trova i suoi fondamenti in questa frase:

Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni d’italiani stanchi del razzismo?

Obiettivo di questo movimento è stato, infatti, l'organizzazione di una manifestazione nonviolenta per far comprendere all'opinione pubblica quanto l'apporto dei migranti sia indispensabile al funzionamento della nostra società e come gli italiani debbano essere uniti per difendere i diritti fondamentali della persona, combattere il razzismo e superare la contrapposizione tra "noi" e "loro". Partendo da questi obiettivi il primo marzo 2010 si è svolta una manifestazione che ha avuto grande successo coinvolgendo almeno 300mila persone nelle piazze italiane. Adesso scopo del movimento è impegnarsi a livello politico e coinvolgere sempre di più la popolazione italiana.

Combattere attraverso la nonviolenza non è non-reagire ai soprusi ma subirli per far valere le proprie ragioni.




Riferimenti:

Ricerca a cura di Gabriella Malato, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization



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Omosessualità a Palermo: un caso di violenza bilaterale


Pur avendo cercato di aprirsi alla modernità, Palermo, deve ancora sconfiggere delle barriere culturali che la rendono sottosviluppata. Una di queste riguarda il rapporto con l’omosessualità, che non viene compresa né accettata dalla maggior parte della popolazione. Più spesso interpretata come malattia o degenerazione, l’omosessualità spesso diventa motivo di violenza gratuita. La nostra costituzione dice che non dovrebbe esserci alcuna discriminazione, eppure la realtà di fatto non è questa. Oltre a problematiche più generali, come la possibilità di sposarsi o avere dei figli gli omosessuali devono affrontare lotte quotidiane per affermare la loro esistenza. il loro diritto a esistere. Sono costretti a nascondersi o chiudersi in ghetti, ‘zone’ a loro riservate, locali con serate organizzate. Non hanno diritto a esprimere la loro sessualità, tenersi per mano o darsi un bacio innocente sono attività a loro precluse senza ricevere di rimando sdegno o, nel caso di due donne omosessuali, proposte indecenti del tipo menage à trois. Se l’omosessualità maschile spesso provoca sdegno e paura, quella femminile non viene neanche accettata come reale. Film pornografici vengono in mente ai più quando si parla di donne gay. Così gli omosessuali vengono sentiti e, di contro, si sentono diversi, tendono a chiudersi in sé stessi e, a volte, può capitare che anche loro possano arrivare alla violenza per rispondere ad un'altra.
Il caso che vogliamo raccontare è avvenuto qualche anno fa però, purtroppo, rispecchia qualcosa che è ancora attuale. Un pub in zona arenella, Villa Costanza, stava organizzando una di queste serate gay organizzate dagli stessi. A un certo punto un ragazzo si avvicina a un tavolo con una decina di ragazze e comincia a insultarle violentemente. Una ragazza si alza e quello, con una bottiglia tagliata tra le mani, le graffia il volto fino a farle uscire sangue. Un’amica della ragazza ferita si alza anch’essa e il ragazzo la colpisce di nuovo sul viso. Mancavano quella serata i buttafuori che avrebbero dovuto cacciare il ragazzo. Invece i proprietari del locale, non avendo assistito alla scena, cacciano sia le ragazze che l’aggressore. Viene chiamata la polizia, ma la rabbia delle ragazze non si era placata. Incominciano a picchiare violentemente il ragazzo il quale si ritrova alla fine della contesa pieno di ferite insanguinate. Quelle ragazze avevano perso la ragione e sfogavano la rabbia, accumulata in tanti anni di soprusi, con altra violenza.
È difficile in questo caso stabilire a chi dare la colpa dell’accaduto, perché troppi sono i colpevoli. Il comportamento dell’aggressore prima e delle ragazze dopo è sicuramente riprovevole, non ha giustificazione. Si può comprendere però, il ragazzo si è sentito autorizzato ad aggredire le ragazze da una società che non è in grado di accettare e comprendere l’omosessualità come fatto normale. Alla persecuzione ai gay, come ai ‘diversi’ in generale, non si è ancora dato il giusto peso, non è sentita la gravità dell’azione. Si deve forse aspettare un olocausto per farlo?
Le strade da percorrere per sedare questo genere di conflitto sono due, una relativa all’immediato dopo conflitto, quindi all’ hic et nunc, e l’altra relativa all’abolizione dei motivi stessi del conflitto ab origine. Rispetto alla prima riteniamo che sia insufficiente il semplice allontanamento dal locale di quanti disturbano la quiete del luogo. Non è una soluzione ma è solo un atteggiamento che tradisce un egoismo e un’indifferenza di fondo, infatti, questo provvedimento si innesca esclusivamente per evitare danni al locale e per non turbare i clienti che, in caso contrario, non tornerebbero più nel locale. Quante volte si sentono i buttafuori o i proprietari pronunciare frasi come “Fuori vi potete scannare ma dentro il mio locale no”.
È, in un secondo momento, sintomo di un’ indifferenza collettiva, il pensiero comune risulta: “se il conflitto non lo vedo non esiste, se tra noi e le persone lì fuori c’è solo una porta a dividerci questo a me basta”. No, non basta, e non basta allontanare queste persone, occorre lanciarsi in prima linea cercando di mediare tra i litiganti attraverso il dialogo e l’ascolto per poter placare gli animi. Lo riconosciamo, non è un metodo sempre applicabile e risolutivo ma, forse, una delle motivazioni per cui l’odio trova dentro di noi un terreno fertile dove attecchire, è da attribuire ad una mancanza di ascolto e di amore da parte di chi ci sta accanto.
Per questo l’allontanamento di questi soggetti non è consigliabile; diamogli modo di avere uno spazio in cui subentri il dialogo e quindi la riflessione, la ragione; capirebbero da soli che non c’è giustificazione né un motivo per la violenza esercitata. Facciamo sentire loro che appartengono ad una società in cui la diversità non dovrebbe avere un’accezione negativa, non è un pericolo né un ostacolo ma è da intendere come sinonimo di risorsa.
La seconda soluzione, quella protesa alla soluzione del problema ab origine, mira alla formazione di una società non-violenta ad opera di persone che accettino e condividano il pensiero non-violento. Per auspicarci ciò è necessario partire dagli agenti di questa costruzione; i bambini e i ragazzi. La loro deve essere un’educazione alla diversità, ci indirizziamo verso i bambini e i ragazzi perché la fase della scolarizzazione coincide con quella in cui le menti si formano. A questa età i bambini e i giovani sono pronti a leggere la diversità come risorsa, così che la tolleranza, l’amore verso il prossimo e il rispetto si possano sedimentare meglio in loro. D’altronde la violenza è anche frutto d’ignoranza, di preconcetti, di retaggi culturali e di poca dimestichezza con determinati argomenti.
Ma da dove cominciare? Bisogna partire da modelli e da fatti concreti per evitare che la “non- violenza” rimanga un concetto astratto, bisogna spiegare realmente a cosa porta la violenza e cosa può evitare il rifuggire da essa.
Occorre far familiarizzare le generazioni più giovani con testi come la nostra Costituzione e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non limitandosi alla sterile enunciazione degli articoli. Occorre leggere, spiegare, motivare, argomentare, far prendere colore alle parole degli articoli senza trascurare l’impulso che è stato alla base della loro formulazione partendo proprio dalla data di quest’ultima, 1947-48 per entrambi i documenti.
È necessario sottolineare da cosa sono scaturite, cosa fosse l’Europa negli anni precedenti, quale buio e quale vergogna avevano attivato l’esigenza di annullare la violenza per poter rinascere e produrre cose belle e utili alla società. La Costituzione o la Dichiarazione dei Diritti Umani , sono nate da una mediazione e armonizzazione tra persone che, seppure ideologicamente diverse, si sono unite per far sì che non si creassero più spirali d’odio.
Occorre far conoscere le azioni di uomini come Gandhi, Martin Luther King ma soprattutto di quelle persone che operano concretamente nel nostro territorio. Questi sono grandi uomini facilmente accessibili e concretamente vicini a noi, uomini in cui i bambini e i ragazzi si possono rispecchiare e da cui possono prendere esempio osservando. Infatti solo osservando con i propri occhi l’atteggiamento di chi si spende e di chi si mette in prima fila, potranno comprendere l’importanza di spezzare la catena d’odio attraverso l’amore e la solidarietà.
Occorre infine che le qualità non si raccontino solamente ma che si instillino negli animi anche con azioni concrete perché il rispetto, l’amore, l’onestà e la correttezza devono essere cercate esclusivamente negli uomini per essere spese successivamente nella costruzione di una società , di una istituzione, di un sistema.




Ricerca a cura di Giovanna Ciaccio, Eleonora Leto, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization




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Noi e l'altro da noi. Prospettive per un confronto autentico col 'diverso'


A fronte degli incontri cui si è partecipato, e coerentemente con l’argomento preso in esame in sede di laboratorio – ossia un approccio teorico, pratico e di carattere esperienziale ai temi della nonviolenza e dei diritti dell’uomo -, agli studenti viene richiesto di elaborare una proposta di risoluzione nonviolenta rispetto ad una situazione conflittuale. La consegna, a mio avviso, si presenta alquanto ardua, dovendosi, in molti casi, azzardare un parere solo congetturale e non comprovato circa una situazione non direttamente vissuta. Non avendo maturato personalmente alcuna rilevante esperienza in questo senso, proverò a scrivere qualcosa di simile, ma che non faccia preciso riferimento ad un contesto conflittuale propriamente attraversato. Dunque, si tratterà piuttosto di porre attenzione su una realtà potenzialmente conflittuale, per di più molto spesso taciuta (se non totalmente e volutamente ignorata), con l’intento di scuotere dall’acquietamento nell’ovvio1 in cui spesso ci si ritrova, e di ‘costringere’ a pensare e a farsi carico di un problema, piuttosto che infischiarsene, dicendolo troppo lontano da sé.
Ho ben presente il rischio insito in un simile tentativo, rischio consistente nello scadere nella vuota retorica; è altresì vero che, essendo doveroso mettere a frutto il proprio pensiero critico, non posso esimermi dal porre in atto tale compito.
Chiedo venia per una premessa così lunga – che ho però ritenuto doverosa, al fine di giustificare la mia scelta circa l’argomentazione, la quale tenderà a illustrare non tanto una proposta di risoluzione creativa e nonviolenta di un conflitto, quanto piuttosto una proposta di riflessione, a partire dal mostrare il carattere pervasivo della violenza in quanto tale. Tale premessa prelude inoltre a una critica dei pregiudizi che surrettiziamente vengono veicolati, e pertanto lasciati passare senza la minima attenzione. Procederò, dunque, partendo da una breve sequenza del film d’animazione Persepolis2, che mi è risultata particolarmente pregnante per una sfumatura di senso che propone quasi (se non del tutto) velatamente.
La sequenza in questione - la descriverò brevemente - riguarda un fatto singolare, che emerge durante il confronto tra la protagonista del film (una giovane donna iraniana) e la realtà del divorzio – realtà sulla quale ella medita, vagliandola in termini di possibilità di risoluzione dei propri problemi coniugali. L’amica con la quale la donna condivide questa riflessione la mette in guardia circa l’atteggiamento degli uomini nei confronti di una donna divorziata, descrivendole la vicenda vissuta dalla propria zia. Quest’ultima, infatti, dopo avere ottenuto il divorzio dal marito, si era vista costretta a subire le avances di svariati uomini3; precisamente, la sfilza di provocazioni subite parte dalle proposte di vari commercianti della zona di residenza della donna (dal panettiere al pescivendolo) fino ad arrivare ai commenti avanzati da un mendicante. Proprio qui la mia attenzione è stata fortemente richiamata. Infatti, la reazione della donna alle varie proposte è stata sostanzialmente diversa: mentre nel caso dei commercianti ella si limita ad andarsene via o a voltare le spalle indispettita, nel caso del medicante decide di sferrare un colpo all’uomo aiutandosi con la propria borsa. Ora, ciò può apparire un fatto insulso o nient’affatto rilevante, ma personalmente ritengo che sia un messaggio quanto mai negativo e riprovevole. Tanto più che, come già anticipavo, veicola un contenuto forte e fortemente carico di ingiustizia in maniera surrettizia, facendo sì che tale contenuto, in quanto inserito in un contesto più ampio, non desti la minima attenzione critica. Ferma restando la mia disapprovazione nei confronti della concezione sessista, retrograda e inaccettabile circa le donne divorziate propria della società descritta dalla regista, mi meraviglia, infatti, la facilità con cui la donna si scaglia contro il barbone, di contro alla grossa difficoltà che incontra nel reagire anche in maniera minima ai commenti degli altri uomini4. Ciò mostra non solo un atteggiamento profondamente diverso nei confronti di chi risulti “integrato” nella società rispetto a quello adottato nei confronti di chi non lo è, ma anche un comportamento completamente differente. Insomma, a conti fatti, sebbene tutti i personaggi maschili menzionati siano alquanto sgradevoli nel loro approccio alla donna, quest’ultima riesce a reagire (vigliaccamente, a mio avviso) soltanto dinanzi al più derelitto! Lungi dal volere criticare arbitrariamente usi e costumi di un Paese ‘altro’, il mio scopo è quello di rilevare come questo fatto rispecchi un atteggiamento comune e diffuso anche nella nostra società, nei confronti dei poveri che vivono per strada. E non c’è da stupirsi se quello che dapprima costituisce solo un comune sentire diventi poi un modo di fare che non desta dissenso. Non è raro, infatti, apprendere dai quotidiani o dai notiziari di casi di violenza totalmente gratuita nei confronti di senzatetto, a opera di gente cosiddetta dabbene. Ove il movente, per altro, è spesso la noia (se non la ‘solita’ prepotenza).
Il mio intento non è certamente quello di stigmatizzare un lavoro cinematografico, il cui senso è chiaramente da ricercare in altro piuttosto che in questo breve episodio; tuttavia, mi sento interpellata in prima persona a prendere la parola rispetto ad un episodio che ritengo grave, e soprattutto pericoloso se lasciato passare senza riflessione di sorta. Il mio breve elaborato vuole essere un incentivo rispetto a una presa di coscienza (e di posizione) circa un fatto così importante5. Ora, una critica è produttiva e utile allorquando si mostra capace di far seguire, alla pars destruens, una proposta concreta ed efficace, e la mia riflessione non vuole affatto esaurirsi unicamente in una critica infruttuosa. Allora, in ciò consiste la mia proposta: l’emarginazione dei senzatetto è un fatto noto, e la violenza su di essi ne è una conseguenza; a mio avviso, non vi sono proposte o tentativi di soluzione migliori della conoscenza personale, diretta o indiretta che sia, di una tale realtà. Non mi riferisco solo alla presa in considerazione della problematica in questione, ma anche - e soprattutto - delle persone direttamente coinvolte. L’atteggiamento adeguato ad un confronto con i senzatetto non è quello della pietà; questo, infatti, oltre a essere solo di poco migliore rispetto all’estraneità e all’indifferenza, genera un modello di relazione assolutamente verticale, in cui un individuo che assume una posizione di superiorità si pone gerarchicamente nei riguardi di un altro che si trova – rispetto a lui - più in basso. Ora, è chiaro che non può mai darsi una totale parità tra un individuo integrato nella società e uno che ne vive ai margini: non è certo possibile avere chiara cognizione delle reali condizioni di vita (e di disagio) proprie di un clochards. Purtuttavia, ci si può sempre cimentare in un tentativo ‘creativo’ di approccio: una modalità relazionale di tipo empatico, aperto al confronto6, capace di lavorare sui propri preconcetti (sempre utili per dare inizio ad un processo di comprensione, ma da mettere in gioco sempre di nuovo), al fine di modificarne le derive più estreme, nell’ottica di un avvicinamento simpatetico7 al ‘diverso’, all’altro da noi8. Sono proprio l’ignoranza, l’assenza di un confronto vero e proprio che permetta di misurarsi con chi è apparentemente tanto diverso e lontano da noi, a non consentire l’autenticità dei rapporti e delle prese di posizione9. La realtà dei senzatetto, quando non è ignorata o passata sotto silenzio, è sempre oggetto di critica in senso negativo. Si tende a biasimare una ‘scelta’ del genere – per quanto non sempre si possa parlare di deliberazione autonoma: nella maggior parte dei casi, quella di vivere per strada non è una decisione presa in maniera libera e volontaria; piuttosto, si tratta di scelte obbligate (ove l’eco dell’ossimoro è affatto palese). Non solo, dunque, chi vive in condizioni disagiate diviene bersaglio di giudizi negativi e di riprovazione; non solo costui è costretto alla solitudine, all’emarginazione e al degrado psicofisico, ma è anche oggetto di violenza (fisica e psichica, giustappunto). Il mio obiettivo era proprio questo: segnalare la presenza di un problema, prendendo spunto da una proiezione cinematografica ricca di spunti di riflessione, sia in termini negativi (come nel caso dello stereotipo riguardante i mendicanti finora analizzato), sia in termini positivi. Infatti, per quanto io abbia stabilito come punto di partenza proprio una parte di questo film, il mio intento – come già accennavo, e mi accingo ora a ribadire - non è affatto quello di biasimare l’intero film: tutt’altro. Se ci si avvale dell’etimologia del termine “problema”, infatti, si è messi di fronte alla consapevolezza della possibilità – mai totalmente negataci – di risolvere il problema stesso a partire da esso10. Se non avessi avuto questa sollecitazione dalla sequenza filmica in questione, non mi sarebbe venuto in mente di sollevare la questione (almeno, non in questa sede). Invece, proprio tale episodio mi ha dato modo di porre in luce un aspetto rilevante della società. E prendere coscienza di una cosa, per quanto problematica essa possa essere, è comunque un buon inizio per tentare di superarla in un senso positivo e produttivo.


1 Tale modo di procedere trae spunto dalla fruttuosa proposta del Prof. A. Cozzo, il quale, proprio nell’ambito degli incontri previsti in sede di laboratorio, ha aperto provocatoriamente il proprio intervento dichiarandosi contrario ai diritti dell’uomo, e in particolare all’espressione “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. La giustificazione addotta riguardava sostanzialmente due punti di rilevanza pregnante, sui quali non ci si sarebbe affatto soffermati se non vi fosse stata l’azione provocatoria, sovversiva (ma in senso profondamente positivo) del docente. Anzitutto, egli menzionava la presenza di più di una Carta dei Diritti – il che inficia senz’altro il carattere ‘universale’ di tal sorta di documenti (o quantomeno la loro pretesa di validità universale). Ciò mostra, inoltre, le derive coercitive di un’universalità pressoché (infondatamente) imposta. In secondo luogo, criticava l’assenza, in seno alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, di un qualunque riferimento ai doveri dell’uomo – riferimento peraltro presente nella Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli del 1981. Menzionare unicamente i diritti potrebbe, in effetti, comportare lo scadere in un buonismo ipocrita, o in un assistenzialismo paternalistico e gerarchizzante rispetto a tutelanti e tutelati, se non in un atteggiamento certamente politically correct, ma gravemente deresponsabilizzante. Se ho optato per un lavoro ‘decostruttivo’, dunque, ciò è in parte dovuto alla lezione tratta dall’intervento del Prof. Cozzo.
2 La proiezione di tale film, realizzato nel 2007 dalla regista iraniana Marjane Satrapi, era prevista dal programma di svolgimento degli incontri inerenti al laboratorio.
3 Poiché una donna divorziata è già ‘stata di’ un uomo, ella non può aspirare ad una vita ‘normale’ o ad un ritorno alla vita ‘prematrimoniale’ dopo avere divorziato: nessun altro uomo vorrebbe sposarla, proprio perché lo è già stata con qualcun altro, mentre vari uomini si sentono in diritto di farle delle avances, considerandola necessariamente disponibile perché consapevole del proprio status.
4 Naturalmente, qui non si tratta di invocare una sorta di ‘parità di trattamento’ nel senso dell’opportunità di una reazione egualmente violenta ed aggressiva nei confronti di tutti; piuttosto, si tratta di riflettere sulla mancata ‘parità di trattamento’. Pare infatti opportuno chiedersi perché il modo di reagire della donna non sia il medesimo per ciascun singolo caso, e soprattutto perché la reazione cambi esclusivamente ed espressamente in un caso ben preciso – quello di un senzatetto. Ciò che fa problema è l’atteggiamento discriminatorio. A fini chiarificatori, riporterò un esempio, considerato anche che questo episodio di discriminazione ricorda la testimonianza che una ragazza nordafricana condivise con noi frequentanti il laboratorio durante uno degli incontri. La sua esperienza riguardava la realtà degli ‘immigrati’, degli ‘stranieri’, ai quali non è affatto riservato lo stesso trattamento che si usa riservare ai cittadini ‘regolari’. La testimonianza, infatti, mostrava come, mentre un ‘normale’ cittadino non venga sottoposto a controlli da parte delle forze dell’ordine, a meno che questo non sia strettamente necessario, un ‘immigrato’ possa essere fermato per un controllo dei documenti in qualunque circostanza, perfino durante una semplice passeggiata, per il solo fatto di essere ‘straniero’. Per tale ragione, il cittadino ‘regolare’ può anche dimenticare di portare con sé il proprio documento di riconoscimento, non rischiando controlli improvvisi; diversamente, l’‘immigrato’ non può permettersi una tale svista (per quanto abbia il pieno diritto di trovarsi nel luogo in cui si trova), pena le ben note complicazioni di tipo burocratico sugli accertamenti di regolarità di soggiorno. Anche questo episodio, dunque, a ben guardare, offre svariati spunti di riflessione, e per questo motivo mi è parso opportuno – nonché pertinente – riportarlo in questa sede.
5 Uno dei punti cardine della teoria-pratica della nonviolenza è la critica della relazione vittima-carnefice e del giustificazionismo che può seguirne. Infatti, così come il carnefice è tale solo e soltanto in virtù della legittimazione che la vittima stessa, comportandosi appunto da vittima, gli concede, allo stesso modo il disinteresse e la superficialità (quali possono essere la mancata presa di posizione, l’assenza di proteste, la mancata applicazione di sanzioni) nei confronti di simili problematiche ne legittima il sussistere ed il perpetuarsi.
6 Una modalità relazionale di questo tipo consente di instaurare un rapporto simmetrico piuttosto che gerarchico, sebbene non si possa dare un rapporto paritario per il motivo suddetto: risulta impossibile capire realmente come viva un senzatetto, data la complessità e la difficoltà di condurre una vita di stenti e di emarginazione.
7 Il termine “simpatetico” deriva dal verbo greco á (ove è chiara la presenza del riferimento a á, -), che significa sia “subisco, sperimento nello stesso modo”, sia “soffro insieme” (il cum patior latino). Proprio il “soffrire insieme” nel senso di un cercare di comprendere lo stato dell’altro, senza la pretesa di capirlo in toto (il che è impossibile, a meno che non ci si trovi a condividere realmente le sue condizioni di vita), è un valido tentativo di apertura vera all’altro.
8 Misurarsi con una realtà sconosciuta o poco nota e mettere a disposizione anche di altri il frutto della propria esperienza, diffondendo in tal modo l’informazione guadagnata, costituisce una buona prospettiva di risoluzione per questa sfera altamente problematica del nostro contesto sociale. Sebbene un tale approccio non possa affatto sanare la piaga dei senzatetto (in quanto inadatto ad offrire a tutti i clochards condizioni di vita effettivamente migliori: una stanza, un impiego, cibo e indumenti o quant’altro), esso può però rendere migliori le condizioni relazionali di questa gente, restituendole quella dignità che spesso – e senza alcun titolo per farlo – le viene negata.
9 Può risultare proficuo, in questo contesto, leggere le parole con cui, nel 1927, Martin Heidegger, eminente filosofo del secolo scorso, prende in esame l’uomo (l’Esserci) dal punto di vista della sua interpretazione: «l’Esserci [Dasein], fin dall’antichità, da quando prese in esame se stesso, si interpretò come Cura» (M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2008, p. 224). L’Autore, insomma, pone a tema l’uomo nei termini di un prendersi cura e di un aver cura che attestano la possibilità - inscritta nell’essenza stessa dell’uomo - di una relazione autentica con sé, con gli altri e con le cose intese come strumenti e non come meri oggetti (cfr. Ivi, infra).
10 Anche in questo caso, il riferimento all’etimo si rende infatti imprescindibile e illuminante. Il termine “problema”, in greco ó, significa, oltre che “questione”, “quesito”, “problema”, anche “sporgenza”, “riparo”, “difesa”, “appiglio”. Avvalendoci dei significati che la lingua greca ci fornisce possiamo dunque vedere come un problema non sia unicamente una situazione sfavorevole, bensì anche quello stesso che offre la possibilità - l’appiglio, appunto - per la propria stessa risoluzione. 



Ricerca a cura di Giuseppa Aglieri, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization

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Lo Zen:una profonda ferita nel cuore della città. Tra abusivismi e sgomberi forzati


Allo Zen sono stati violati i basilari diritti umani a partire da quello dei bambini. Hanno trasformato quello che era un ghetto in un lager”. Queste sono le parole pronunciate da Rita Borsellino, deputato del Parlamento Europeo, durante la visita fatta in seguito allo sgombero forzato eseguito dalle forze dell’ordine il 20 Aprile 2010. All'alba di quel giorno, gli abitanti del posto si sono fatti trovare sui tetti dell'Insula 3 nel quartiere Zen 2, con esposto ai balconi, un unico striscione che tuonava:"Vogliamo solo un tetto". Inizia cosi una giornata di forte tensione e contrapposizione fra senza casa e forze di polizia, quando sono iniziate le operazioni di sgombero delle 35 famiglie che occupavano gli alloggi dell'Istituto autonomo case popolari ancora in costruzione, ma già assegnate ad altri senza casa. Una situazione complessa dunque, da un lato una guerra tra poveri alimentata dalle istituzioni e dall'amministrazione comunale, dall'altro la legittima azione di occupazione da parte di decine di famiglie sprovviste di un tetto. Un’ operazione congiunta di oltre un centinaio tra Carabinieri, Polizia e Vigili Urbani in tenuta anti-sommossa hanno provveduto alla restituzione degli appartamenti ai legittimi assegnatari. Le operazioni, andate avanti per alcuni giorni hanno, ancora una volta e con maggiore forza, evidenziato quanto il problema si sia, fino ad ora, trascinato senza interventi e soluzioni definitive. Il quartiere, afflitto gia’ da gravi problemi di degrado architettonico, sin dalla sua costruzione, per la quasi totale assenza di manutenzione sui fabbricati, sulla rete idrica e fognaria, con alti tassi di dispersione scolastica, microcriminalità e infiltrazioni mafiose, ha sempre rappresentato un nodo difficile da sciogliere per tutte le amministrazioni che si sono, negli anni, succedute alla guida della città. Nonostante le numerose denunce ad opera dei media e l'impegno delle istituzioni scolastiche, religiose e del volontariato, la situazione del quartiere rimane tuttora grave ed allarmante, tanto da sollevare l’ipotesi dell’abbattimento definitivo.
Tra i molteplici problemi che affliggono la zona, in aggiunta alla vastità e all'intensività dell'insediamento di edilizia popolare (il quartiere ospita circa 16.000 abitanti), il più grave continua ad essere il lungo elenco di ritardi burocratici e disattenzioni politiche che, recentemente, sono sfociate in occupazioni non leggittime di 60 alloggi ancora in fase di costruzione. Le case popolari occupate abusivamente sono divenute oggi un’enclave sociale distinta dal resto della città da frontiere fisiche e simboliche quasi impossibili da valicare.
Il sindaco Diego Cammarata ha affermato, a questo proposito, “C’è una lista da rispettare, i legittimi assegnatari sono persone altrettanto bisognose di quanti occupano abusivamente e diversamente da questi ultimi, non cercando di fare valere i loro diritti con atti di violenza. Abbiamo creato una graduatoria aggiuntiva per le condizioni di particolare gravità e abbiamo proceduto proprio in questi giorni ad assegnare alcune abitazioni provenienti dai beni confiscati alla mafia". Comunque vada rimarranno ugualmente delle famiglie senza un tetto dove abitare. Il Sindaco parla di atti di violenza, quando il vero e primo atto di violenza ai cittadini è stato costruire tutta la zona espansione nord. Si dice che “Vivere allo Zen è un’arte”, in più di 10mila ci abitano senza leggi né diritti, senza acqua né luce, un quartiere di esclusi, una microsocietà con la propria cultura e le proprie leggi al di fuori della società vera e propria. Quello che risulta evidente e' che la presenza dello stato nei quartieri popolari Palermitani si materializza soltanto in queste occasioni , quando c'e' da sgomberare, da compiere delle retate o delle iniziative mentre, quotidianamente, regnano disoccupazione e precarietà. Nonostante il dispiegamento massiccio di forze dell'ordine le donne con i bambini hanno resistito a lungo all'interno degli appartamenti, acconsentendo, alla fine, al trasloco dei mobili e dei pochi oggetti personali con cui avevano arredato le case ancora allo stato grezzo. Gli uomini, invece, correndo da un punto all'altro dei tetti, hanno resistito per ore sotto il sole torrido, sperando che la situazione si evolvesse a loro favore. Gli occupanti dichiaravano di non voler scendere dai tetti finchè non venisse data loro la possibilità di un incontro con un rappresentante del Comune, ribadendo di non avere un altro posto dove andare, una volta abbandonata l'Insula 3. “Non siamo animali e non abbiamo intenzione di andare via, anche noi abbiamo diritto di un posto dove mangiare e dormire”. L’interrogativo maggiore che bisogna porsi di fronte a problemi gravi come questi è, quale sia la soluzione migliore per risolveri. E la risposta non è mai facile. Quando si deve decidere sui bisogni primari come quello della casa, la guida può essere solo quella della legalità e del rispetto delle graduatorie regolari, proponendo agli abusivi di trasferirsi in locali improvvisati ad abitazione?. Decenni di inettitudine si possono compensare in poche e sbrigative soluzioni? Pensiamo che l’impegno debba partire innanzitutto dalle istituzioni, che hanno il dovere morale, per il ruolo che ricoprono, di garantire le condizioni minime di vivibilità e dignità. Un primo passo potrebbe essere quello di investire più risorse nella costruzione di nuovi alloggi da destinare, ottimizzando i tempi di realizzazione degli stessi. Un secondo passo, immedesimandoci questa volta negli occupanti, potrebbe consistere in manifestazioni non violente che sfocino in cortei pacifici o sit-in di protesta davanti le sedi istituzionali adeguate.É ormai finito il tempo delle soluzioni temporanee, c’è bisogno di interventi definitivi e risolutivi, perchè avere un tetto sopra la testa non è un sogno ma un diritto.



  1. Ricerca a cura di Gilda Miceli e Elisa Pagano , H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization



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La questione tibetana.


La questione tibetana è, a livello umanitario, una delle emergenze più gravi e meno
trattare al mondo. I rapporti politici e soprattutto economici che il governo cinese ha
intessuto ed intesse con i paesi industrializzati dell’occidente consento al governo cinese
stesso di perpetrare impunemente, nei confronti delle minoranze linguistiche e razziali,
una politica di repressione e terrore.
Non sono solo, infatti, i tibetani che subiscono violenze e vessazioni considerevoli, ma
anche diversi altri popoli “liberati” dal partito comunista cinese dagli “imperialisti”.
Mongoli e Uiguri hanno subito una sorte molto simile a quella dei tibetani; tragedie
dimenticate di popoli troppo, numericamente e militarmente, inferiori alla supremazia
degli Han.
Il Tibet è l’ultima delle grandi zone limitrofe alla Cina ad essere stata “conquistata” dai
cinesi.
La Cina ha sempre avuto mire egemoniche sul Tibet fin da tempi molto antichi. Il nome
cinese per indicare il Tibet è Xizang, “paese del tesoro occidentale” e questo e questo è
molto indicativo di quanto, prima gli imperatori e poi il partito comunista cinese, tenessero
al Tibet.
La storia del Tibet e del suo popolo è complessa e tortuosa.
Si passa da periodi di piccoli regni regionali di stampo prettamente feudale a monarchie
guerriere che conquistarono tutta l’Asia centrale, alle dominazioni di vari Khan mongoli,
al potere temporale detenuto dai Dalai Lama sino all’occupazione cinese. Ci
concentreremo sull’ ultima parte della storia del Paese delle nevi che è quella che
maggiormente ci interessa.
Nell’ ottobre del 1949 i comunisti di Mao Zedong giunsero al potere in Cina; un anno
dopo l’esercito di liberazione popolare entra nella zona del Chamdo, invadendo di fatto il
Tibet.
Il pretesto era che il Tibet potesse essere conquistato dagli imperialisti occidentali che lo
avrebbero depredato delle sue ricchezze togliendo ai tibetani la libertà.
Dopo un primo periodo di relativa pacifica convivenza, negli anni settanta la rivoluzione
culturale voluta da Mao Zedong devastò il patrimonio culturale e religioso dell’intero
Tibet.
Migliaia di monasteri furono fatti saltare in aria con la dinamite, violenze indicibili furono
attuate su monaci e monache e sull’intera popolazione civile.
Secondo stime approssimative il numero delle vittime è di circa 1.200.000 morti
ammazzati.
E’ innegabile che da un punto di vista del progresso materiale i cinesi hanno fatto molto,
ma il prezzo pagato dai tibetani è troppo alto.
Il loro capo spirituale e temporale, Sua Santità il Dalai Lama, è stato costretto a fuggire in
India, nel 1959, per salvarsi la vita e dare una speranza al suo popolo.
Circa 130.000 tibetani lo hanno seguito, molti altri non sono sopravvissuti al viaggio, allo
sbalzo climatico, alle malattie ed ai cecchini cinesi.
Lo stesso Dalai Lama ha più volte denunciato il “tentativo di genocidio culturale” che i
cinesi hanno attuato in Tibet.
Oggi i tibetani sono stranieri nel loro paese, il governo di Pechino ha trasferito
sull’altipiano tibetano circa sette milioni di cinesi Han, un milione in più rispetto gli stessi
tibetani.
È proibito ai tibetani di avere più di un figlio a famiglia, tenere immagini di Sua Santità il
Dalai Lama, cantare canzoni popolari, contestare apertamente il regime.
Le donne tibetane subiscono, in alcuni casi, sterilizzazioni forzate; nelle scuole non si
insegna il tibetano ma solo il cinese Han; nei monasteri sono presenti agenti del governo
camuffati da monaci per poter bloccare eventuali sommosse dei monaci.
Benché il Dalai Lama abbia più volte cercato di intavolare un dialogo con le autorità
cinesi, dichiarando di non puntare più all’indipendenza ma all’autonomia del Tibet, il
regime cinese ha sistematicamente bocciato tutte le proposte del leader tibetano.
Più volte molti governi non hanno rilasciato il visto d’ingresso al leader tibetano proprio
per non infastidire Pechino che minaccia di interrompere i vantaggiosi accordi economici
stipulati con molti paesi. In altri casi al Dalai Lama è stato sì rilasciato il visto ma, in fine,
non è stato ricevuto dalla classe politica dei paesi in cui si è recato.


Ricerca a cura di Vincenzo Scaglione Vicepresidente della H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization

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Fonte: www.wikipedia.org